Da Srebrenica. Srebrenica, 30 anni dopo la strage che ha reso tristemente famosa questa cittadina ricostruita e ancora abitata al confine con la Serbia, l'unico rumore che si sente è uno strano e angosciante silenzio. È bene però precisare subito che il luogo in cui si è consumato il primo genocidio dai tempi della Seconda Guerra Mondiale lascia in chi la osserva sensazioni e suggestioni non facili da definire. Spesso perfino contrastanti.
Vista dall'alto di una collinetta, e come capita in tanti altri posti della Bosnia Erzegovina, Srebrenica offre una vista (quasi) da cartolina. Un paio di minareti, il campanile di una chiesa, diverse palazzine, in questo periodo dell'anno imbiancate dalla neve. Montagne ricoperte da una fitta vegetazione circondano il paesino, come se volessero proteggerlo dal mondo esterno. Nel luglio del 1995 non basteranno però né la natura né l'uomo a salvare i suoi abitanti dalle forze serbo-bosniache aizzate da Belgrado.
Il tour degli orrori
Non è semplice da Sarajevo raggiungere con i mezzi pubblici Srebrenica, collocata, secondo la suddivisione territoriale stabilita dagli accordi di Dayton, nella Repubblica Sprska, a maggioranza serba. Molto più facile affidarsi ai tour operator locali che organizzano visite con trasferimenti nei luoghi della memoria che hanno segnato il conflitto in Bosnia. Diversi osservatori definiscono cinicamente "turismo nero" questa tipologia di escursioni, sottolineandone con sprezzo il carattere voyeuristico. Come però accade per altri siti associati ad eventi tragici del Ventesimo Secolo, la possibilità di vedere con i propri occhi quanto l'essere umano sia stato in grado di trasformarsi in bestia è un'esperienza dall'insostituibile valore educativo. Il fatto poi che all'interno della comunità serbo-bosniaca e della sua classe politica siano presenti diversi negazionisti delle stragi compiute dalle truppe del generale Ratko Mladic conferma l'importanza di apprendere in maniera diretta le testimonianze di quanto è successo in particolare nell'estate del 1995. L'ultima, la più terribile della guerra in Bosnia.
A rendere ancora più preziosa la visita a Srebrenica è il fatto che spesso le guide siano ex soldati che, durante le due ore e mezza di trasferimento da Sarajevo, raccontano nei dettagli la cronologia degli orrori portati a termine dai soldati serbo-bosniaci e degli errori commessi dalle Nazioni Unite. Impossibile, infatti, non menzionare il ruolo chiave dei caschi blu dell'Onu nella catena di eventi che porteranno al massacro di oltre 8000 civili bosniaci. Le forze delle Nazioni Unite, - qui le definiscono "United Nothing" - avrebbero dovuto proteggere la popolazione musulmana di Srebrenica dall'attuazione dei piani di pulizia etnica di Mladic dopo che già per tre anni la città definita "area protetta" era stata posta sotto assedio da parte dei serbi. Il fallimento della missione del battaglione olandese Dutchbat guidato da Thom Karremans è entrato tristemente nella storia dei più gravi insuccessi dell'Onu.
Diverse sono le località attorno all'area di Srebrenica in cui furono scoperte le fosse comuni. Il memoriale-museo dedicato al genocidio dei bosniaci è situato a pochi chilometri di distanza dalla cittadina principale, a Potocari, dove aveva sede una delle basi della missione Unprofor delle Nazioni Unite. Qui, stanza dopo stanza, è possibile visitare gli uffici del contingente di Karremans e visionare un documentario con riprese originali, a volte difficili da guardare, delle azioni disumane compiute dai militari di Mladic. Di forte impatto emotivo è l'allestimento dei resti delle scarpe ritrovate lungo il percorso della cosiddetta Marcia della Morte, che richiama la tragedia dell'Olocausto. "Le guerre sono tutte uguali", sussurra qui in inglese una visitatrice con il velo a una ragazzina al suo fianco.
"La vendetta contro i turchi"
Le ragioni, se così si può dire, della strage a Srebrenica, e più in generale del conflitto in Bosnia, affondano nella complessa storia dei Balcani e nell'influenza determinata nell'area per secoli dagli ottomani. Nel 1989 Slobodan Milosevic, all'epoca presidente della Repubblica Socialista di Serbia, pronunciò in occasione delle celebrazioni del seicentesimo anniversario della battaglia della Piana dei Merli un discorso fortemente nazionalista che gettò i primi semi dell'odio che matureranno di lì a poco. La battaglia del 1389 citata da Milosevic si concluse con la sconfitta del regno serbo medioevale ad opera dell'Impero Ottomano. Uno scontro che di fatto segnò l'inizio del dominio musulmano sulla regione serba protrattosi per circa cinquecento anni. Non a caso, le truppe di Mladic negli anni Novanta grideranno che è arrivato "il tempo della vendetta contro i turchi".
Nel luglio del 1995 a Srebrenica si raggiunse l'abisso più nero della guerra in Bosnia. L'entità della strage fu quasi subito chiara e la scoperta dei massacri contribuì, assieme agli attacchi al mercato di Sarajevo dello stesso anno, a convincere la comunità internazionale ad intervenire per fermare i serbo-bosniaci. Il successivo accordo di Dayton, che da allora ha stabilito il funzionamento politico della Bosnia Erzegovina ma che viene definito imperfetto dalla popolazione locale, ha comunque il merito di aver garantito, sino ad ora, la pace.
"Srebrenica salvò il Kosovo nel 1998", spiega al Giornale Adis, un ex militare bosniaco oggi guida turistica, facendo riferimento alle successive operazioni di pulizia etnica di Milosevic. L'ex combattente, il quale fu tra i primi "sneker warrior" (così all'inizio della guerra in Bosnia erano chiamati i soldati sprovvisti di divise e di armi adeguate), sottolinea che la comunità internazionale fu allora più veloce a reagire alle notizie delle azioni criminali dei serbi.
Un dolore senza fine
Nel cimitero dove sono sepolte le vittime di Srebrenica - 8372 il conteggio ufficiale, ma l'identificazione e il ritrovamento dei resti dei civili massacrati sono ancora in corso - la distesa infinita di lapidi bianche stringe il cuore. All'ingresso della città del dolore compare scolpita nella pietra la lista delle vittime, tutti musulmani trucidati a partire dal 9 luglio e nell'arco di una manciata di giorni. Molti i cognomi che si ripetono. Intere famiglie cancellate da una sete d'odio che sfugge ad ogni comprensione.
Mentre un cane solitario trotterella tra i sentieri del cimitero, Adis racconta che ogni anno, l'11 luglio (la data in cui si commemora la strage), vengono tumulate le vittime i cui resti sono stati riconosciuti nel corso dell'anno precedente. Di tanto in tanto, prosegue la guida, vengono ritrovati anche i resti di chi è già stato sepolto riaprendo le ferite tra le famiglie delle vittime. Questo perché i corpi nelle fosse comuni sono stati spesso spostati dall'esercito di Mladic per renderne più difficile il ritrovamento.
Difficile levarsi dalla mente quanto visto e ascoltato a Potocari. Il drappo con la scritta "we were alone" ("eravamo soli"), l'immagine di una donna sofferente e con gli occhi chiusi, i frammenti di vita conservati nelle teche. Tanto, infinito il dolore da processare. Forse non basta un museo o una commemorazione pubblica ogni anno per impedire che gli orrori della guerra in Bosnia si ripetano. Senza di essi, però, l'arduo cammino verso la pace e la riconciliazione tra le varie etnie del Paese balcanico sarebbe di certo un'impresa impossibile da realizzare.

