Colpire gli utili? È ragionevole (ma con misura)

Scritto il 21/10/2025
da Osvaldo De Paolini

L'Italia è l'unico Paese al mondo dove gli utili bancari fanno quasi più scandalo dei fallimenti bancari. Curioso, per un Paese che per dieci anni ha invocato banche più solide, più efficienti, più patrimonializzate, quando queste ci riescono, ecco il coro moralista: guadagnano troppo. Come se il profitto debba avere un limite morale. Colpisce poi il tono da manuale di economia pianificata: i margini sono più alti che altrove, segno che la concorrenza non funziona, quindi bisogna intervenire. Come dire che il bar sotto casa che riesce a sopravvivere a caro bollette e tasse comunali, va multato perché ha troppi clienti.

Per converso, ecco compiersi il solito miracolo laico: si trasforma una legittima misura fiscale in un processo sommario, e una valutazione economica in una guerra di religione. Da una parte, i pasdaran del mercato purissimo, convinti che qualsiasi profitto sopra la media sia un diritto divino; dall'altra, i sacerdoti del populismo fiscale, per cui ogni euro in più di utile (rispetto a cosa, non si capisce), è una colpa da redimere con una mazzata del 10-15 per cento.

Nel mezzo, sta il buonsenso. E il buonsenso dice che tassare un settore che ha margini eccezionalmente alti in un periodo eccezionale non è un attentato all'economia di mercato, ma può essere se fatto con intelligenza e misura una redistribuzione selettiva e temporanea, finalizzata a compensare distorsioni sistemiche che nessuno accetta di correggere.

Le banche italiane oggi fanno utili netti sopra il 34%. Bene. Non è uno scandalo. Chi grida allo scandalo perché una banca fa soldi dimentica che il credito è un'attività rischiosa, ciclica e sottoposta a vigilanza costante. Non sono le banche a doversi vergognare dei loro bilanci: sono semmai certi opinionisti a doversi vergognare della loro ignoranza contabile. Ma, allo stesso tempo, non è un sacrilegio suggerire che, in un momento di stretta salariale, inflazione ancora viva e calo del potere d'acquisto, un piccolo contributo straordinario possa essere richiesto a chi per effetto combinato di tassi Bce e struttura di mercato ha beneficiato di un ciclo ultrafavorevole.

Chi recita la parte della vestale ferita, e invoca l'Antitrust come se le banche fossero cartelli segreti da smantellare, farebbe bene a ricordare che la concorrenza bancaria non è una corsa a chi regala di più, né una lotteria. È un sistema regolato, con soglie d'ingresso alte, licenze, patrimonio minimo, vigilanza europea e obblighi di riserva.

Non si tratta quindi di punire nessuno. Si tratta di capire che i profitti molto elevati, se non sono frutto di innovazione o strategia, ma di una contingenza macro e di una struttura oligopolistica, possono in via straordinaria essere tassati in misura proporzionata e soprattutto non retroattiva, come previsto dalle regole basilari dello Stato di diritto. Non è l'odio per chi guadagna di più. È l'ordine dei conti pubblici. E non c'è niente di anti-mercato nel riconoscere che, in alcune fasi particolari, il settore privato può contribuire un po' di più se ha guadagnato più della norma, senza comprometterne investimenti, stabilità o fiducia. L'alternativa, del resto, quale sarebbe? Continuare a indebitare lo Stato per finanziare sanità, sgravi Irpef o contratti pubblici, lasciando che il dividendo del ciclo vada solo agli azionisti del credito? I quali, è bene sottolineare, sono indirettamente beneficiati dagli effetti di una contabilità pubblica risanata grazie anche a provvedimenti come questo. E allora convengano i banchieri: meglio una tassa moderata, chiara, che lo Stato incassa subito, che mille proclami moralistici da talk show, o peggio, riforme finte che non vedono mai la luce. La libertà d'impresa è sacra, ma non esiste libertà senza responsabilità fiscale. E chi oggi chiede una tassa ragionevole non è un bolscevico travestito da tecnico, ma un liberale con i piedi per terra.

Il profitto è un merito. Ma il contributo allo Stato, quando serve, è un dovere. Il resto è ideologia da salotto o, peggio, da consiglio d'amministrazione.